Intervista a Chiara Ferraris

Chiara Ferraris scrittrice esordiente con il romanzo “L’IMPROMISSA” edito da Sperling & Kupfer, si racconta in questa foto intervista attraverso le domande di Chiara Giulia Arienti e le fotografie di Gianluca Russo.

Chiara, intanto grazie per la disponibilità. Da biologa a scrittrice, scrivere era un tuo sogno già da giovanissima oppure questo desiderio è nato a seguito di un evento particolare?

La mia passione per la scrittura c’è da sempre, sebbene le scelte che ho fatto per i miei studi si siano discostate apparentemente da questo percorso. Ho sempre creduto che la scrittura sarebbe stata solo una passione e devo dire che per qualche tempo l’ho anche accantonata. Da bambina ero innamorata della lettura e affascinata dalle scrittrici in generale, credo sia colpa di Piccole Donne e Jo March. Inoltre leggere era la mia unica vera passione. Non ero molto brava nello sport, nel disegno, nella musica, insomma in tutte quelle cose che di solito si fanno da piccoli, però leggevo. Leggevo come una pazza.Ben presto mi sono domandata come si facesse, a scrivere. Cosa volesse dire dare voce alle proprie storie. Da ragazzina ho cominciato a scrivere qualcosa, grazie a una vecchia macchina da scrivere di mia madre. Negli anni ho usato la scrittura sicuramente come un modo per esternare le mie emozioni, è stato il rifugio in cui rinchiudere tutti i miei pensieri, e per esprimere la mia creatività, ma sempre come un passatempo, non credevo di potermici avvicinare diversamente. Poi qualche anno fa ho deciso che fosse arrivato il momento di vedermela con un’idea in modo serio. Io e lei. Per molti pomeriggi. Ricordo che quando cominciai a scrivere l’Impromissa, mi sono detta: “Inizia solo se lo farai fino in fondo”.

Il tuo primo libro è appena uscito cosa provi? Te lo saresti mai aspettato nel 2015 dopo aver vinto la seconda edizione del Premio nazionale per opere inedite «Parole di Terra»?

Non mi aspettavo neppure di vincere il Premio! Devo dire che in questo percorso sono state molto importanti le persone intorno a me, che mi hanno incoraggiato a tentare strade nuove e ad alzare sempre di più l’asticella delle mie aspettative. Gli amici che hanno letto la prima stesura mi hanno detto: “Devi farlo pubblicare, vai avanti”. Sempre in seguito all’indicazione di un’amica, tentai l’invio del manoscritto al Premio, convinta che non sarei neanche mai stata selezionata. Dopo il primo posto al Premio, totalmente inaspettato, è iniziata la ricerca di una casa editrice. E il romanzo è arrivato alla Sperling. Una grande, immensa emozione. So che è il frutto di tanto lavoro e di tanta passione. E anche di non aver ceduto mai al pensiero di non farcela, anche se, innegabilmente, c’è stato anche quello, in diversi momenti.

C’è un libro in particolare che ha segnato la tua vita? Per un nostro “gioco”, chiediamo di portare un libro del cuore, qual è stata la tua scelta e perchè?

I romanzi della mia infanzia sono stati importantissimi perché mi hanno legato alla lettura in un modo viscerale: Piccole Donne, Robinson Crusoe, Papà Gambalunga. In particolare, ricordo il primo libro che ho letto in totale autonomia: “Con il permesso di Zeus”: una raccolta di miti greci. Penso di averlo letto milioni di volte. Da quel momento non ho più potuto fare a meno di leggere. I miei genitori erano disperati, continuavo a chiedere libri nuovi! Poi c’è stato “Cime tempestose” al liceo, lettura estiva proposta per compito, iniziata con un pizzico di scetticismo. E invece ne sono rimasta colpita: ho capito come le parole potessero trasmettere emozioni e sentimenti distanti da noi, per tempi e modi. Quel romanzo sapeva farmi sognare a occhi aperti. Ci pensavo di continuo, anche quando non potevo leggere. E da allora ricerco sempre quella sensazione lì, in un libro: la capacità di esserci anche quando non lo apri. E infine una voce fuori dal coro, nelle mie letture: Stephen King. Lo amo moltissimo. Lessi per primo “Stagioni diverse” addentrandomi in un genere molto distante dai miei soliti. E da aspirante scrittrice l’ho studiato molto, perché King ha la capacità di farti entrare nella vita delle persone di cui scrive come se fossero i tuoi migliori amici (o i peggiori nemici).

Vivi in campagna, ami la natura, hai un luogo o un momento preferito dove raccogli le idee e ti lasci trasportare dalla scrittura?

La campagna è il mio habitat naturale, l’ho capito vivendoci, nonostante io sia cresciuta in città. Per scrivere amo stare seduta al tavolo della cucina. Dalla porta-finestra di fronte al tavolo vedo i monti che abbracciano la mia valle, e questa visione è di grande ispirazione per me. Poi, quando ho tante idee per la testa e non riesco a metterle in ordine, o quando devo decidere come proseguire un pezzo e sono bloccata, allora cammino. Esco e vado avanti e indietro tra i boschi. Questo ha il potere di tranquillizzarmi e di aiutarmi a riordinare i pensieri. Un altro momento in cui rifletto molto è quando guido, cosa che, per motivi logistici, faccio spesso. Guidando riesco a liberare la mente dalle preoccupazioni e volo con la fantasia. Moltissime situazioni che troverete nel romanzo le ho pensate mentre andavo avanti e indietro tra lavoro, casa, asilo e impegni vari. E poi, il confronto con mio marito. Quando non so se un’idea funziona, se uno stratagemma per sbloccare una situazione è sensato, allora ne parlo con lui, che non è un lettore, non è uno scrittore, ma un uomo decisamente pragmatico, che sa essere molto obiettivo. So che il suo giudizio è sempre pulito, preciso.

Le protagoniste del tuo romanzo, recita la quarta di copertina, sono le donne, le loro scelte, la loro forza, il loro sacrificio. Vuoi parlarci di queste donne?

Di donne, nel romanzo, ce ne sono moltissime. Due sono le protagoniste: Agata, nel presente, e, nel passato, Alice, la prozia di cui Agata legge i diari, scoprendone la vera storia. Due donne all’apparenza diverse ma che, in realtà, hanno molti punti in comune. Credo che siano accomunate, soprattutto, dall’essere due donne molto vere: erose dai dubbi, dalle incertezze, si pongono sempre molti propositi che spesso tradiscono perché non riescono a tradire loro stesse. Dicono di non riuscire a lasciarsi andare, ma poi lo fanno, nei momenti inaspettati e nel modo in cui lo sanno fare le donne: totalmente. Agata è una donna bloccata: la sua vita non sta prendendo alcuna piega, è congelata, si dice che deve affrontare le situazioni ma, al tempo stesso, fugge di continuo. E l’incontro con i quaderni della zia Alli, donna di cui ha sempre sentito parlare dalla propria madre, la scuote: la lettura, inizialmente, sembra risuonare solo di echi lontani, una storia appartenuta a una vita passata, una vicenda, anzi una serie di vicende, che cominciano negli anni Venti e che rivelano la vera identità di Alice. Ma ben presto Agata capisce che nessuna storia è sepolta nel passato, e che dietro a ogni storia, ce ne sono altre, vere, concrete, ricolme di sudore e carne. Se Agata fa fatica a prendere posizioni nella propria vita, Alice, invece, subisce le scelte che gli altri fanno per lei, e deve decidere se soccombere ai vari risvolti che il destino le impone, o accettarli, farne la propria forza e proseguire per una strada che non riesce mai bene a capire dove vada. E’ una donna che s’impone di non amare, ma che continua a scegliere l’amore, in tutte le sue forme.

Quali sono le tematiche trattate nel tuo romanzo?

Ne “L’impromissa” si respira un grande affetto per la tenuta di famiglia, la fattoria nell’alta Valpolcevera. Alice se ne innamora e Agata ne è innamorata dall’infanzia, anche se lei la vive come un ricordo. Decide quindi di tornare lì, il posto che detiene tutte le memorie importanti della sua famiglia, in un momento in cui non sa come affrontare i vari aspetti della sua vita che non funzionano. La campagna sa essere una madre paziente, accoglie Agata, così come aveva accolto la sua prozia, dona il tempo giusto per schiarire i pensieri. La terra rappresenta un tema cardine del romanzo: tutte le vicende del passato ruotano intorno alla ricchezza della tenuta e ogni scelta è indirizzata in modo che la fattoria possa continuare a esistere. La vita della famiglia Lantieri si intreccia con il destino della propria terra, sembrano dipendere da lei non solo fisicamente, ma anche da un punto di vista emotivo.
Ho deciso, poi, di parlare di un momento storico che mi appassiona molto, ossia il periodo a cavallo delle due guerre, e del fenomeno della Resistenza, che qui in Liguria ha assunto una connotazione molto rilevante. Credo che per molti di noi sia una sorta di eredità genetica, le storie sui partigiani e la liberazione d’Italia scorrono insieme al nostro sangue, fanno parte di una memoria che non è fatta solo di parole e racconti. E’ nell’aria che respiriamo, nei nostri paesaggi, dappertutto. E’ la nostra tradizione.
Infine c’è l’amore, il motore che fa avanzare, ma che al contempo ostacola, blocca, dà sempre nuove motivazioni e nuove delusioni: è sicuramente al centro del romanzo, sotto molti aspetti. L’amore che potrebbe essere semplice, e che tutto sommato lo è, ma che s’incastra sempre in qualche meccanismo inaspettato.

Il tuo primo romanzo si intitola “L’impromissa”, come mai questo nome?

Non posso dire troppo, altrimenti svelerei un punto cruciale del romanzo. È un termine genovese con cui, un tempo, si indicava la “promessa sposa”, cioè la ragazza fidanzata “in casa”, potremmo dire, con la benedizione di famiglia e quant’altro. La scelta di una parola genovese è dovuta al legame forte che sussiste tra il romanzo e il territorio. È una parola dal sapore antico, come lo sono i racconti della zia Alice, e quando compare nel romanzo, quella parola diventa un punto di svolta.