(Italiano) Intervista a Barbara Fiorio

Barbara Fiorio si racconta attraverso le domande di Cristina De Regibus e le fotografie di Gianluca Russo

Ciao Barbara, benvenuta e grazie per esserti resa disponibile a questa intervista
Grazie a voi per l’ospitalità! Mi fanno molto piacere queste chiacchiere insieme. Per me un tè verde, grazie.

Barbara Fiorio, genovese, hai fatto studi classici, master in marketing communication allo IED, ti sei occupata per quasi dodici anni di promozione teatrale per importanti teatri e sei stata anche portavoce del presidente della Provincia di Genova. Cosa ti ha portato a scrivere romanzi?

Be’, un conto è l’amore per la scrittura, un conto è il lavoro. Certo, l’ideale sarebbe riuscire a trasformare una passione in una sufficiente fonte di reddito, ma in Italia ci riescono davvero in pochi. A questo aggiungo il fatto di aver sempre desiderato scrivere, fin da bambina, ma di non aver mai osato credere veramente di poter fare la scrittrice. Almeno, non fino a quarant’anni. Ebbene sì, ho aspettato parecchio prima di osare. Però i miei studi e i lavori che ho fatto mi hanno dato tantissimo, sono ciò che mi ha formata umanamente e professionalmente, sono felice di averli fatti. Il teatro, poi, è sempre stato un’altra delle mie grandi passioni, per cui lavorarci una dozzina d’anni è stato un grande privilegio. Cosa mi ha portata a osare, mi chiedete. Vi direi il caso e gli amici. Avevo raccontato in una community di blogger (ai tempi non c’erano ancora i socialnet) le fiabe nelle loro versioni originali ma con la mia cifra stilistica, ossia con una chiave fedele ma ironica. Questo modo di raccontare è piaciuto moltissimo, tanto che mi hanno chiesto di scriverne abbastanza da raccoglierle in un libro, ed è nato C’era una svolta. È nato, ma dovevo trovare un editore. Non avevo la più pallida idea di come fare e non conoscevo nulla e nessuno del mondo dell’editoria, avevo solo due certezze: non volevo nessun editore a pagamento e non volevo un editore di Genova (perché ai tempi ricoprivo un ruolo di prestigio e non volevo essere pubblicata sulla base di questo e non del testo che proponevo). Non ho mai preso in considerazione l’auto-pubblicazione: per me è fondamentale superare per merito tutti i passaggi del percorso per una vera pubblicazione, quindi le selezioni di editori e agenti, per cominciare, e poi il lavoro con editor, redattori, correttori di bozze parallelo agli altri professionisti che si occupano della grafica, del marketing, della distribuzione. Insomma, se la si fa la si fa sul serio, secondo me. C’era una svolta, che era questo piccolo saggio ironico sulle fiabe classiche, è stato pubblicato nel 2009 da un piccolo editore di Pavia, è piaciuto e ha avuto belle recensioni, seppur nel suo – lo ripeto –piccolo. Questo mi ha fatto venire la voglia di osare ancora di più e provare a scrivere un romanzo ed è nato Chanel non fa scarpette di cristallo, uscito nel 2011. A quel punto ho osato ancora di più e ho cercato un agente letterario. Da lì in poi sono approdata in Mondadori con Buona Fortuna (nel 2013) e in Feltrinelli con Qualcosa di vero (nel 2015), e sono stata tradotta in Spagna e in Germania.

Il tuo primo libro “C’era una svolta” è uscito nel 2009. Ricordi cosa hai provato?

È stata un’emozione fortissima. Oggi mi fa un po’ tenerezza, a ripensarci, non perché la rinneghi, figurarsi, ma mi sembrava di essere diventata una scrittrice solo per quel piccolo libro pubblicato da un piccolo editore, e invece ero una paperotta che si era appena pucciata la zampa nello stagno. Del resto è così che si fa la gavetta, e io credo moltissimo nel valore della gavetta. Ricordo l’emozione della telefonata dell’editore quando mi ha chiamato per dirmi “Ho letto il suo libro, mi è piaciuto, vorrei pubblicarlo, possiamo parlarne?”. Neanche scalare l’Everest in pantofole mi avrebbe fatta sentire più orgogliosa (anche se scalare l’Everest in pantofole mi farebbe sentire soprattutto idiota, ma vabbè, dai, ci siamo capiti). Ricordo l’emozione della firma del contratto, l’emozione della prima prova impaginata e poi l’emozione di vederlo finalmente stampato, di toccarlo, annusarlo, dirgli “Ciao!”. E poi l’agitazione enorme della prima presentazione. Meno male che per lavoro ero abituata a parlare in pubblico, credo di aver finto una credibilissima disinvoltura. Che non avevo. Forse non si sono nemmeno accorti di quanto tremavo. Oggi le presentazioni me le godo (tranne le prime nella mia città, lì sono agitatissima comunque) ma l’emozione per quella telefonata, per la firma del contratto e per la prima volta che prendi tra le mani la copia stampata restano fortissime.

Nei tuoi romanzi “Chanel non fa scarpette di cristallo” e “Qualcosa di vero” le fiabe hanno un ruolo fondamentale. Com’è nata l’idea di unire favola e romanzo?

Potrei partire con espressioni “archetipi” o “prima forma narrativa” e cose così, ma sarò onesta: le fiabe sono la mia comfort zone e ho giocato facile. Mi sono innamorata della narrativa e dell’arte del narrare con le fiabe, ho iniziato a leggere e scrivere storie verso gli otto/nove anni e le fiabe facevano parte di me. Ovvio, poi sono cresciuta e ho nutrito anche altre passioni, ma se C’era una svolta è nato come un gioco tra amici, Chanel non fa scarpette di cristallo è stato il mio primo tentativo di romanzo e sono rimasta dove sapevo di potermi muovere con padronanza e sicurezza. Mi sono tuffata nel vuoto con Buona fortuna e poi l’amore per il primo libro mi ha fatto venire la voglia di dargli una seconda vita. Così mi sono chiesta “Chi racconterebbe le fiabe in quel modo? E a chi?” e mi è stato naturale pensare a una donna ironica, senza dimestichezza coi bambini ma con una cultura umanistica che motivasse la sua conoscenza della favolistica classica, e una bambina con sufficiente curiosità e ironia da apprezzare le fiabe raccontate a quel modo. Dovevo farle inciampare una nell’altra ed è così che, nel primo capitolo di Qualcosa di vero, Giulia inciampa letteralmente in Rebecca.

Dai tuoi libri si capisce che l’ironia è la tua cifra stilistica, hai mai pensato di scrivere qualcosa di diverso? Be’, io spero di scrivere ogni volta qualcosa di diverso: storie diverse, personaggi diversi, contesti diversi. Questo non deve necessariamente farmi rinunciare alla mia cifra ironica. Non scrivo romanzi di genere – non scrivo rosa, gialli, noir e altri colori – ma con ironia si può fare qualsiasi cosa, parlare di qualsiasi cosa, raccontare qualsiasi storia, scrivere anche un rosa, un giallo, un noir o buttarsi nella tragedia. Io sono ironica di mio, non è una posa, ma non significa che debba sempre far ridere, tutt’altro. L’ironia non è la comicità, grazie all’ironia si può parlare di argomenti delicatissimi e dolorosi e scendere in profondità. Nei miei romanzi ho parlato di amicizia, di vecchiaia, di solitudine, di dolore, di abbandono, di tradimenti, di bullismo, di violenza sulle donne, di disoccupazione, di crisi creativa, di disperazione, per esempio.

A ottobre dello scorso anno, è uscito per Morellini Editore una raccolta di racconti su Genova a cui hai contribuito con la storia “Noi eravamo quelli che” dove parli dell’alluvione del 2014 usando come personaggio Margot, già protagonista di “Buona fortuna”. C’è un personaggio a cui sei più legata o che in qualche modo ti rappresenti?

Non vi sfugge niente, eh! In quel racconto ho usato Margot perché era l’unica mia protagonista dichiaratamente genovese (in quel momento, poi è arrivata Vittoria) e che fa la giornalista, due elementi utili per raccontare quella terribile alluvione. Certo, potevo creare un altro personaggio, ma quel racconto l’ho sentito con la voce di Margot, un personaggio che amo molto.
Ma amo anche gli altri, è davvero impossibile dirvi se ce n’è uno a cui sono più legata. E credo che un po’ tutti abbiano qualcosa di me, per quanto siano diversi tra loro. Quando le persone che mi conoscono meglio hanno letto Chanel non fa scarpette di cristallo mi hanno ritrovata in Beatrice e in Maddalena (e anche un po’ nella Vecchia), poi mi hanno ritrovata in Margot di Buona fortuna, poi hanno deciso che ero assolutamente Giulia di Qualcosa di vero, ma anche un po’ Rebecca e forse pure un po’ Lorenzo. Ora mi ritrovano in Vittoria (e qualcuno anche in Irene, una delle amiche di Vittoria), eppure sono personaggi diversi tra loro. Posso dire che sì, sono io, e che no, non sono io. Sono personaggi miei, io sono un po’ in tutti, credo, a volte anche solo in un modo di dire o per il gusto preferito del gelato o nella musica che ascoltano. E per i gatti.

A proposito di Vittoria, il tuo ultimo romanzo: ti va di parlarci un po’ di lei?
Vittoria è una donna di 46 anni, una fotografa genovese, che si ritrova contemporaneamente senza lavoro, lasciata dal compagno che pensava fosse il grande amore della sua vita e in piena crisi creativa. Non in una bellissima situazione, ecco. È una donna forte che non sa di esserlo e noi la conosciamo in uno dei momenti peggiori della sua vita, nel quale fa di tutto, con ironia e dignità, per restare in piedi ma sembra non riuscirci. Il lavoro non si trova, la sua macchina fotografica giace ferma, il dolore sentimentale le taglia le gambe. Dalla sua ha gli amici – senza dubbio è un libro che celebra l’amicizia più di ogni altro sentimento –, ha una bella ironia, una certa inventiva e un gatto, Sugo, che è un po’ un piccolo fool. Dopo una serie di vane ricerche di lavoro, un po’ per scherzo e un po’ per caso si ritrova a leggere i tarocchi alla gente. Senza crederci mai ma azzeccandoci moltissimo.
Questo la porterà a riaprire la porta al mondo, alle persone, ad ascoltarle, a guardarle di nuovo con il suo occhio da persona empatica ma anche, a un certo punto, da fotografa.
Qualcuno arriverà a pensare che lei legge i consultanti attraverso il proprio obiettivo fotografico, ed ecco nascere la fotomanzia, ma in realtà ciò che lei dà è ascolto e speranza, e molto buon senso. Elementi che a un certo punto, finalmente, cominceranno a far bene anche a lei, che tornerà a ricordarsi l’importanza della leggerezza e quanto si possa essere straordinari senza prendersi terribilmente sul serio.

Tu sei l’organizzatrice del “GSSP” il Gruppo di Supporto Scrittori Pigri. Nel nostro gruppo ci sono molti aspiranti scrittori, potresti spiegarci in cosa consiste?
Il GSSP è un laboratorio online di scrittura narrativa. Significa che io prendo tutti gli iscritti, li
costringo a scegliersi un nickname (più buffo è meglio è, ma sono liberi di farsi chiamare come vogliono), li porto con me in un forum creato apposta per loro, quindi online, a cui possono accedere sempre, da ovunque, tutte le volte che vogliono, e per tre mesi, lì dentro, li faccio lavorare sulla loro scrittura e sulle loro idee.
Per me è un impegno a tempo pieno e lo faccio con gioia, ci si sta bene, sul GSSP, si crea un forte senso di comunità tra persone che condividono la stessa passione e che magari non si sarebbero mai conosciute altrimenti per età, città, studi o professioni diverse.
Sono già alla sesta edizione e ormai vedo che questa forza si conferma e consolida ogni volta. È un vivissimo spazio virtuale.
Ne tengo due: quello di gennaio è sulle tecniche narrative, quindi ogni settimana io assegno un’esercitazione, loro la pubblicano sul proprio diario (un po’ come se fosse il loro blog o profilo), dove tutti possono leggerla e commentarla, dando suggerimenti e opinioni, sempre costruttivi e rispettosi, poi passo io e lascio le mie considerazioni su ciascun pezzo. Ogni settimana su ogni esercitazione. Quello di settembre, invece, è dedicato alla costruzione di un romanzo, ciascuno il proprio, sempre con lo stesso concetto di seguire le mie esercitazioni assegnate ogni settimana, ma in questo caso mirate a seguire un processo di struttura, con un confronto condiviso e le mie valutazioni. A tutto questo percorso si aggiungono: la presenza di docenti professionisti del settore, approfondimenti sui vari argomenti trattati, suggerimenti di letture, interviste che fanno a scrittori, editor e agenti, per dire le attività principali.
È molto bello quando amici scrittori mi chiedono “dei miei Pigri” o sono felici di prestarsi alle interviste che faccio fare agli iscritti. Il GSSP ha diversi vantaggi:

– lo si può frequentare da ovunque, anche dal divano (siamo Pigri!), basta avere internet;
– non c’è sincronia, ciò significa che se io pubblico un approfondimento, per esempio, il lunedì, lo si può leggere anche venerdì, e rileggere tre settimane dopo se si vuole rivedere qualcosa, insomma man mano che il laboratorio procede, tutto ciò che viene messo sul forum ci rimane fino alla fine del laboratorio;
– ci si può gestire autonomamente il tempo da dedicargli, quanto e quando;
– è riservato agli iscritti, nessun altro può leggere ciò che viene messo lì;
– consente il confronto con persone accomunate dalla stessa passione e che si stanno mettendo tutte in gioco: non c’è competizione, c’è supporto;
– è adatto a ogni fascia d’età e di abilità tecnologica (serve solo la pazienza di capire la dinamica: ho avuto anche persone di 65 anni che in una settimana si destreggiavano come nerd navigate);
– nascono vere amicizie, sempre, e in tanti ritornano perché l’atmosfera che si crea è bella, sana, allegra (nonostante si lavori moltissimo).

Se volete scoprire qualcosa di più curiosate sul sito www.scrittoripigri.com E se amate la fotografia e il disegno, sul portale dei Creativi Pigri trovate anche notizie sui Fotografi Pigri e sui Disegnatori Pigri.

Per un nostro “gioco”, chiediamo di portare un libro del cuore, qual è stata la tua scelta ?
È stata una scelta difficile, perché io non ho un libro del cuore: ne ho molti e mi pareva di fare un torto agli altri scegliendone uno solo.
Così ho deciso di portarne tre.
Ho portato il primo libro del cuore, ossia quello che mi ha fatto innamorare delle storie, della lettura ma anche desiderare di scrivere. Ero bambina, quando questo libro mi veniva letto o semplicemente raccontato, e ricordo che allora sognavo, un giorno, di scrivere anche io storie come quelle.
Sono le fiabe dei Fratelli Grimm.

Avendo portato il primo libro di cui mi sono innamorata ho scelto di portare anche l’ultimo. L’ultimo al momento dell’intervista, s’intende, che magari tra una settimana un altro libro mi avrà fatto innamorare di sé (è la speranza che tutti noi lettori manteniamo sempre, no? Quella di incappare in un libro che ci emozioni, che tocchi corde scoperte, che ci incanti e ci lasci, all’ultima pagina, con la sensazione di aver perso un amico caro).
Ecco, l’ultimo libro di cui mi sono innamorata è “Britt-Marie è stata qui” di Fredrik Backman.

L’altro libro che ho portato è “L’Idiota” di Dostevskij perché è il primo libro che ho letto di questo incommensurabile autore, innamorandomi della sua scrittura. Dopo aver letto quello ho dovuto leggere tutti gli altri ma il mio amore per lui è iniziato da questo libro.

Hai qualche consiglio da dare a chi si affaccia alla scrittura?

Quelli che do anche ai miei Scrittori Pigri, a cominciare dal mantra che ripeto sempre “Fate le cose seriamente ma non prendetevi sul serio”.
Poi, è importante mettersi sempre in discussione: non difendere a spada tratta la propria idea o il proprio testo ma capire, con l’aiuto delle osservazioni che vengono fatte, se effettivamente funzionano ed essere pronti a modificare. Presentare un testo se non perfetto, quasi, almeno dal punto di vista linguistico. La
padronanza della lingua è importantissima se si vuole scrivere, e non si deve sottovalutare nulla, né la punteggiatura né la sintassi, né, per dire, la dattilografia. Presentare un testo pulito, che permetta a chi lo leggerà di concentrarsi solo sulla storia e la voce dell’autore e non su tutti gli errori da correggere non è solo una forma di rispetto per il lavoro dell’editor o dell’agente, ma è una forma di rispetto per il testo e per se stessi. E aumenta le possibilità di essere letti. E ovviamente, un altro consiglio su cui batto molto, è di mostrare quello che succede nella storia, non spiegarlo. C’è una forte tendenza alla spiegazione di emozioni, sensazioni, pensieri, paure, gesti, ma pochi sanno mostrarli. Quella è una delle grandi sfide di chi ama scrivere narrativa. E troppi amano le suggestioni, le belle frasi astratte che spesso significano niente o poco: meglio far capire la storia, una storia in cui succede qualcosa, sennò meglio fare poesia. Ma questi sono solo i primi punti su cui mi trovo spesso a insistere, poi ci sono tutti quelli più specifici sulle tecniche, sull’efficacia di un testo, sul buon funzionamento di una trama o di un personaggio. Insomma, ce n’è da dire.

Grazie ancora per l’ospitalità e a presto! Barbara