“La riparazione del Mondo” di Slobodan Šnajder

Se molte delle narrazioni epico-familiari hanno prodotto nella storia della letteratura dei meri quadretti naïf colmi di nostalgiche nature morte, “La riparazione del mondo” (Solferino Editore – 2019), il monumentale romanzo-odissea di Slobodan Šnajder che narra la saga familiare dei Kempf nel cuore della Mittleeuropa, dimostra invece come ogni sguardo retrospettivo posto in bilico tra l’Europa e i Balcani si riveli simile a un dipinto di George Grosz in procinto di fondersi con le atmosfere magiche di Marc Chagall.

E ci rammenta altresì quanto spesso irrompa, in questa duplice alchimia, il terrore di uno Hyeronimus Bosch – con l’intera serie dei suoi mostri restituiti alla modernità, nel segno della croce uncinata.

Alle origini dello sradicamento della stirpe dei Kempf c’è l’ingegneria demografica dell’illuminata imperatrice Maria Teresa d’Austria, che nel 1769 decide di prevenire le rivolte contadine nel ducato di Svevia favorendo la migrazione degli affamati servi della gleba locali (tedeschi di confine, ma di fede cattolica) verso le incontaminate campagne sud-orientali dell’allora Transilvania.

Terre che nei decenni successivi diventeranno la Slavonia croata: una striscia di territorio posta a ridosso di un altro limes bellico, il Danubio.

La satirica penna di Šnajder battezza la nascita di questa nuova minoranza, gli švabe, sotto il segno dello humor mitteleuropeo di matrice ebraica.

Il messo imperiale inviato dalla corte di Vienna per persuadere i contadini alla transumanza, per esempio, “era un ratto, certo molto grande, qualcosa come una überpantegana”. Anche il successivo viaggio fluviale affrontato dal capostipite Georg Kempf verso la terra promessa di Transilvania, in compagnia di ebrei e musulmani, assume le forme di un dramma caricaturale.

La promiscuità umana sulla chiatta, colta nel suo carattere intensamente olfattivo (“Nel XVIII secolo si sopportava più facilmente. Per la maggior parte della sua storia l’uomo ha per lo più puzzato”) precede l’imminenza di un naufragio, il cui pericolo trova ogni comunità religiosa pronta a invocare l’unicità assoluta del proprio Dio (“solo quello dei cristiani è ulteriormente diviso in tre”) attraverso una serie disordinata di preghiere recitate in lingue diverse. “Anche se Dio è poliglotta, a suo tempo si era molto infuriato per Babele; nessuno ama i grossi vocabolari”, chiosa il narratore.

Stabilitisi a pochi chilometri dal Danubio, i pronipoti di Georg Kempf vivono la fine della Guerra Mondiale (“che non potevamo chiamare Prima, poiché non sapevamo ancora che ve ne sarebbe stata una Seconda”) all’insegna di un doppio trauma: la caduta della protezione asburgica e la forte spinta dei nazionalismi interni al fragile Regno di Jugoslavia.

A quest’incertezza si aggiungono le feroci contraddizioni della situazione politica internazionale: “da ogni parte tutti parlavano di pace… in Italia il Duce diffondeva il socialismo, e questa era la cosa più incomprensibile di tutte.”

La repentina espansione nazista e l’invasione tedesca della Jugoslavia nel 1941 fanno rapidamente collassare il microcosmo sociale degli švabe, rendendo l’iniziale ironia di Šnajder sempre più cinica e aspra, prossima all’amertume di un Emile Cioran.

“Talvolta il ‘popolo’ è una malattia inguaribile”, pensa il nuovo protagonista del romanzo, il bisnipote Djuka Kempf, mentre osserva al cinegiornale il basso e miope Heinrich Himmler teorizzare l’avvento del Superuomo ariano-germanico, con la consapevolezza che “sicuramente nel suo castello ha fatto rompere tutti gli specchi”.

Djuka segue quindi il destino paradossale di parte della minoranza tedesca in Slavonia: essere arruolato in una speciale divisione delle SS interamente (e disperatamente) costituita di “tedeschi che vivono fuori del Reich”, in particolare lungo il Danubio. Con questa, viene spedito in Polonia per arginare il contrattacco sovietico dopo la vittoria di Stalingrado: e qui scopre che gran parte delle prime linee naziste sono in realtà composte da soldati tutt’altro che ariani, provenienti dall’Est Europa, in particolare dall’Ucraina. “Nelle Waffen SS erano stati da tempo sospesi i criteri razziali, e poi anche tutti gli altri. Il diavolo ora inghiottiva anche le mosche”.

“Intorno a Dio c’è concordia, i problemi cominciano dal Figlio”. Il Gott Mit Uns della divisa indossata dall’invasore Djuka Kempf nella cattolica Polonia diventa presto la causa di un forte desiderio di diserzione. A realizzarlo concretamente è un’infermiera, Ania, che spinge gradualmente il convalescente Djuka verso le fila della Resistenza polacca (l’Armia Krajowa).

Anche questo sogno di emancipazione, però, nel crudele realismo storico di Šnajder diventa punto di caduta verso l’ennesima disillusione: Ania e moltissimi dei partigiani locali in clandestinità sono fortemente antisemiti. “Gli ebrei sognano sempre qualcosa. La cosa migliore sarebbe che si trasferissero tranquillamente in Palestina”. “In Palestina vivono gli arabi”. “In Polonia vivono i polacchi”.

I mostri di Hyeronimus Bosch iniziano quindi a moltiplicarsi, ben oltre le stragi delle SS e le ceneri dei ghetti ebraici. Per descriverne la ferocia reale dall’interno dei lager ustascia di Jasenovac e di Stara Gradiška, Šnajder sceglie la soggettiva degli sguardi di due ragazze, amiche del protagonista: la comunista croata Vera, torturata ma infine fortunatamente scambiata con i partigiani di Tito, e l’ebrea Sofija – il vero amore giovanile di Djuka Kempf – la cui peggior sorte sarà sublimata dall’autore in un passo struggente, denso di echi shakespeariani e grotteschi, che ne descriverà il viaggio del cadavere, in forma di sirena straziata, tra la Sava, il Danubio, il Mar Nero e l’Egeo, in un malinconico e metaforico ritorno verso le origini classiche della civiltà europea.

La lunga fuga di Djuka Kempf attraverso la Polonia in fiamme e la progressiva trasformazione di Vera in un’ardente combattente titina vengono accompagnate dalla comparsa improvvisa di una voce extradiegetica: una specie di coreuta che prende a commentare sporadicamente le loro vicende dall’alto, ritagliandosi degli inserti (anche tipografici) densi di anticipazioni e flashback.

È il figlio ancora non nato di Djuka e Vera a spezzare la continuità della narrazione: ed è un espediente che ci (r)assicura, garantendoci in anticipo l’happy end, ma al tempo stesso ci distoglie brechtianamente dalla mimesi coi personaggi.

Šnajder introduce quindi magistralmente la riflessione critica nel genere biografico, il punto di vista della generazione futura – la sua – ansiosa di venire al mondo in nome dell’imminente socialismo e quindi straziata dalle guerre degli anni Novanta.

Quasi in forza di questa soluzione stilistica, proprio mentre Djuka sembra condannato ad un’eterna erranza tra i boschi polacchi, le atmosfere di Marc Chagall irrompono finalmente sulla scena: l’epifania di un gruppo di ebrei (naturalmente danzanti) nascosti tra la più folta vegetazione, lontanissimi dal mondo degli assassini, diviene per Kempf l’inizio di un nuovo viaggio attraverso le parti più recondite del conflitto e dello spirito.

Il suo Virgilio si chiama Leon Mordekai (“come se nel nome stesso volesse racchiudere tutto ciò che è ebraico, come se volesse essere e ashkenazita e sefardita”). Il primo girone che i due visitano si chiama Treblinka. Il lager dello sterminio dell’intera comunità ebraica di Varsavia conserva ormai solo gli echi degli orrori passati: ora è un rudere scarno, nel quale migliaia di polacchi affamati scavano, alla spasmodica ricerca di ori e gioielli gettati dagli ebrei internati o addirittura dei loro cadaveri, con ancora addosso dei preziosi da strappare.

L’amicizia vagabonda di Djuka e Leon diventa presto un confronto teologico serrato, incentrato sulla sopravvivenza dell’ebraismo e sulla salvezza del genere umano. Al tiqqun olam, l’unità della luce divina, vera “riparatrice del mondo”, invocata dal mistico Leon, Djuka replica da materialista scettico: “Io vorrei un mondo che alla fine non occorre salvare”.

Ma ecco che, poco dopo questa dichiarazione, quasi in nome di un’ennesima contraddittoria investitura del destino, Djuka deve assistere inerme all’omicidio di Leon da parte di un gruppo di nazisti sbandati. È questo l’evento che segna per il protagonista – sempre più simile allo straniero di Albert Camus – la fine della fuga e l’incipit di un’altra involontaria scelta di campo.

“Pareva che Gott avesse abbandonato i tedeschi. Ma ciò non significava che fosse passato dalla parte dei polacchi”. Gott “cambia posizione malvolentieri. Per lo più sonnecchia”.

Kempf, ormai ribattezzato da tempo Jurek/Jerzy alla polacca, diventa finalmente Jurij per combattere a fianco delle truppe sovietiche, liberatrici e al tempo stesso occupanti nell’ennesima conquista russa della Polonia.

Le azioni di sabotaggio contro i residui reparti nazisti incontrati sulla strada verso Berlino valgono a Djuka-Jurek-Jerzy-Jurij una piena redenzione politica: la bumažka, il documento ufficiale con il quale l’Armata Rossa lo classifica come combattente, lo assolve da ogni peccato originale e gli consente il ritorno a casa (l’anabasi), prima nell’originaria Slavonia, poi nella capitale croata Zagabria.

Il matrimonio e il successivo divorzio con Vera – profetizzati ripetutamente dalla voce del loro futuro figlio – accompagnano il rapido dissolversi della spinta rivoluzionaria jugoslava, fino alla rottura tra Stalin e Tito del 1948.

Non sono soltanto i processi politici, la prigionia degli oppositori interni, l’ascesa dei nuovi burocrati e neppure “i primi significativi silenzi dei partigiani della prima ora” a preoccupare Djuka Kempf, quanto il fatto che a Zagabria “la città stessa cambiava. Sangue nuovo, dicevano alcuni. La città è in balia di barbari analfabeti e arroganti, sostenevano altri… Nella storia è già accaduto molte volte: i montanari scendono in città, la conquistano, e poi inizia la loro civilizzazione. Alla fine sarà la città a conquistare loro, e non appena succederà, nuovi selvaggi se ne impossesseranno.”

Per Šnajder questa colonizzazione interna, promossa dall’apparato titino con gli stessi fini che furono dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, è una delle cause profonde della guerra del 1991. I cui riferimenti cronologici prendono ad affiorare numerosi nell’ultima parte del romanzo.

Il cimitero in cui sono sepolti i membri della dinastia Kempf fin dal 1769 diventa un avamposto della guerra serbo-croata. “Quando tutto finì, le tombe erano state arate dalle granate, le pietre tombali sfondate, le croci bruciate. Anche i corvi si trasferirono.”

Così come il racconto della distruzione della biblioteca di una località vicina, Vinkovci, avvenuto durante la Liberazione dai nazisti, viene descritto dall’autore con parole quasi identiche a quelle utilizzate dallo scrittore bosniaco Dževan Karahasan per il rogo successivo al bombardamento della biblioteca di Sarajevo nel 1992: “I libri erano stati sparpagliati dal vento per i viali, i classici croati e mondiali svolazzavano sulle chiome degli ippocastani e dei tigli. Ciò che del fondo bibliotecario svolazzò via, scomparve per sempre. Se lo portarono con sé gli uccelli migratori” (Il centro del mondo: Sarajevo, esilio di una città, Il Saggiatore, 1995).

 La morte di Vera e Djuka Kempf, narrata dal punto di vista del figlio finalmente nato e cresciuto, non può che avvenire sotto il segno dei nazional-populismi odierni. E della costante rimozione storica da essi richiesta.

Per il necrologio della fiera partigiana Vera, che fu poi attivista nei gruppi antifascisti femminili jugoslavi, “risulta incredibilmente difficile far sì che ci sia una stella. Nell’ufficio delle pompe funebri devo litigare. Nel loro computer c’è tutto; le croci si possono avere in qualsiasi versione. Ma la stella non c’è. Mi hanno detto che nessuno la chiede più.”

Il funerale di Djuka, invece, segna l’apice di ogni beffa storica. Celebrato alla presenza di pochissime persone, senza alcun discorso ufficiale, con un prete che ignora totalmente chi sia il defunto, si arricchisce di un ultimo e fatale colpo di scena: uno sconosciuto che, scendendo da una Mercedes, si reca ad appoggiare sulla bara una croce nera con la scritta HIAG.

L’organizzazione ufficiale per il mutuo soccorso delle ex Waffen-SS, direttamente dalla Germania, ha riportato le lancette della storia al peccato originale, alla ferita dello sradicamento.

Anche il sipario del romanzo è quindi tessuto con il velluto della sconfitta degli švabe danubiani. “Kempf nella vita non ha ottenuto nulla, se non di rimanere straniero. E da nessuna parte si può rimanere così completamente stranieri come nel proprio Paese.”

Slobodan Šnajder (Zagabria, 1948) è scrittore e giornalista. Ha pubblicato racconti, saggi e soprattutto pezzi teatrali, conquistando fama internazionale con “Hrvatski Faust” (Il Faust croato). Scrittore prevalentemente di prose brevi, ha pubblicato il suo primo romanzo, “Morendo”, nel 2012, inedito in Italia. “La riparazione del mondo” gli è valso numerosi riconoscimenti, tra cui il premio per il miglior romanzo croato del 2016.

 

Michele Guerra – 18 giugno 2020